Trentacinque anni

Stefania camminava per strada, con le mani sulla pancia morbida, senza guardarsi attorno. I bambini urlavano e lei aveva sempre odiato le urla dei bambini delle undici del mattino, ma la primavera esplodeva da ogni siepe ed albero nella cittadina assolata e questo, di solito, la rendeva felice. In lontananza, la melodia del fiume, che sgorgava dalla fonte come lacrime impossibili da trattenere. Stefania però era riflessiva e non si interessava a ciò che accadeva attorno; anche i bambini, quel giorno, sembravano cantare la sua canzone preferita. Diede un'occhiata alla vetrina della pasticceria e proprio lì, sul riflesso della sua mano, un piccolo omino di pan di zenzero. Entrò nel negozio, lo guardò meglio. Pan di zenzero a inizio maggio? Ne prese uno, se lo fece incartare e lo portò a casa, nella mano che teneva sul grembo. 
Salì le scale dell'appartamento, aprì la porta entrò in casa e salutò il gatto che le fece le fusa. Portò la busta della pasticceria in camera e la poggiò nella culla. Gli sorrise ed iniziò a spogliarsi davanti allo specchio. Tolse la borsa di tela a tracolla e la posò sul lettone. Poi il cappellino fatto all'uncinetto da sua sorella. Gli occhiali e li orecchini nascosti dai ricci castani, sempre lanciandoli sul letto. Poi la maglia larga, la lunga gonna comoda e, in fine, i sandali. Si guardò, in biancheria, allo specchio. Guardò la pancia e le smagliature, avvicinandosi allo specchio e al comodino, dal quale prese una crema che iniziò a spalmare sull'addome non più tonico. Vide la lacrima che dai suoi occhi stava correndo, per suicidarsi dal suo mento e finire lì, su Alberto. E scivolare piano, su quella curva morbida. Alberto, come suo padre, morto anni prima di tumore al seno. Ironia? Anche gli uomini possono avere tumori al seno. Si sedette sul letto e prese le cartelle del medico, senza guardarle, si avviò per la cucina. Abbandonò sul tavolo quella cartella azzurra con le nuvolette, vicino alla lettera di denuncia, e mise su l'acqua per uno dei suoi intrugli, finocchio e salvia. Prese la tazza e la versò, una foglia di stevia e la bustina di tisana. La bevve, lasciandoli in infusione. L'acqua divenne, per un secondo, magicamente azzurra e poi si tinse del colore del piscio. Ma Stefania era abituata al colore del piscio. Le pareti di casa sua erano di quello stesso colore. L'appartamento, arredato con un misto di mobili che avanzavano a i suoi cari, le faceva schifo. Anni di liceo artistico, un senso innato per l'armonia di colori e figure per diventare segretaria in un'agenzia viaggi, lei che sapeva a malapena che il suo paese fosse in provincia di Perugia. L'unica cosa che la rappresentava, in quella casa, erano le fotografie che lei amava scattare, sparse sui muri, con le puntine, visto che il padrone di casa non le permetteva di usare chiodi per i quadri. Si sedette sul divano a fiori rosati, davanti alla TV spenta e, col telecomando, fece partire un CD di De Andrè. "Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.​" le cantò. No, dal letame non nasce niente. Non nasce niente se a trentacinque anni, dopo otto anni che fai sesso senza usare precauzioni col tuo uomo, tuo marito, con il tuo amante, con gli sconosciuti nei locali, rischiando ogni tipo di malattia, pur di avere un bambino, una speranza. A diciotto anni, invece, l'hai fatto. L'hai ucciso, Alberto. Hai abortito perché eri troppo giovane, volevi fare l'università, che non hai fatto. Di certo tu, Stefania, non sei un diamante, tu sei il letame, Stefania. E da te, Merda, non nasce niente. Ed ora? Il ginecologo te l'ha confermato. Sei sterile, non sei feconda, neanche con biologia, chimica e tutte quelle cose di cui non capisci un cazzo, possono salvarti dal tuo restare sola per tutta la vita.
Sei sola, Stefania. Hai abbandonato l'unico essere vivente che ti avrebbe dovuto la vita, e non avrai più niente. Hai tradito il tuo uomo, dandogli la colpa di non poterti dare un figlio quando la colpa è tua; anche sua, perché a diciott'anni ti aveva fatto rinunciare ad Alberto. Per laurearsi, cosa che non ha fatto.
Stefania si alzò ​improvvisamente. Corse verso la cartellina, l'afferrò, le lacrime che scendevano dagli occhi, come un fiume, una cascata, come le stelle a San Lorenzo; i meteoriti. I meteoriti sono la merda del cielo, e noi ci affidiamo a loro, con le nostre speranze. A San Lorenzo aveva fatto l'amore, a diciotto anni, per la prima volta col suo fidanzatino, che sarebbe diventato suo marito per cinque anni, prima di essere tradito. Avrebbe sedici anni, Alberto, da compiere a breve. Il sedicesimo compleanno di Alberto, Albi. Che emozione. Lei lo amava da sempre. Amava quel sedicenne, come quello con cui aveva tradito suo marito. Un bambino, il suo bambino. Tutti i sedicenni con cui avrebbe voluto far l'amore, giovani e per niente virili, che si vantavano di lei. La preda. No, lei, la cacciatrice.La cartellina azzurra finì nell'immondizia, con la lettera dei genitori del giovane Lorenzo, che la esortavano a stargli lontana, aveva solo sedici anni. Il CD andava avanti, come la vita, per tutti. La gatta in balcone, non osava rientrare. Stefania uscì a godersi il sole, per l'ultima volta, prima di saltare dal quinto piano.

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