Ti regalerò la Luna


Mise la collanina che lei gli aveva regalato, nera, semplice, con un piccolo ciondolo di una luna argentata e stringendola forte, quasi a farla male, le bacio la fronte.
«Non esiste nulla che potrei darti per ricordarti quanto è stato bello questo giorno con te.» Sebastiano era sempre stato freddo nei suoi confronti, ma quella sera lei era riuscita a scioglierlo, e come un fiocco di neve, lo guardava sciogliersi nella sua mano, fiera.
Ci fu il primo bacio, uno di quelli indimenticabili da tredicenne. Un bacio troppo umido, troppo desiderato, troppo confuso, che dopo poco divenne troppo statico, troppo secco e troppo vibrato; ma indimenticabile, pieno di ossitocina. Il bacio si concluse in un abbraccio ancora più stretto, un misto di brufoli che si sfiorano, sudori che si mescolano e ascelle pezzate, impregnato di adolescenza e buoni sentimenti. Seba si sedette per terra, trascinando anche lei sull'erba tagliata male e secca, si abbracciarono goffamente, entrambi scomodi, ma vicini, e nessuno dei due disse nulla. Un altro bacio veloce, il secondo. Erika sorrise, forse per la prima volta nella sua vita cupa, sorrise. Se ne innamorò in quel momento, mentre Seba, sotto la Luna, cercava una canzone su YouTube per creare un'atmosfera più romantica di quella che già sentivano: mise Clair de lune, di Debussy e lei sentì un fuoco dentro, chiuse gli occhi e si poggiò sulla sua spalla. Seba era emozionato, strinse la collanina che lei gli aveva dato e fu preso dalla passione.

«Ti regalo la Luna.» disse.

«Come?» chiese Erika, uscendo dal suo piccolo mondo di follia.
«La Luna è tua.»
«Grazie.» Sigillarono il dono con il terzo bacio. 


Erika amava passeggiare, quella sera era sola nella strada buia, illuminata solo da pochi lampioni scassati e dalla luna che enorme si palesava sopra di lei. Spesso la guardava, si scambiavano un sorriso, e tornava a fissarsi i piedi. Mentre misurava i passi, con la mente vuota, s'imbatté in due ragazze, le riconobbe, facevano la sua scuola. Una delle due le sorrise e questo diede molto fastidio a Erika. Come si era permessa di sorriderle in maniera così falsa? Le sentì parlare di lei. "Erika è quella strana, Erika finge di essere fidanzata con Seba, ma Seba non la vuole, la usa, l'ha usata", cretine. Non sanno un cazzo. Non sanno quanto Seba la ami. Seba mi ama. Seba mi ha dato la Luna ed il suo cuore. Parlavano in silenzio di lei.
«Avete qualcosa da dirmi?» Erika era stufa di essere la vittima, di sentire tutti che le parlavano alle spalle, loro non sapevano nulla. Solo lei e Sebastiano conoscevano l'intensità di quell'amore così giovane e forte.
«Cosa?» Chiese una delle due, facendo finta di no aver capito.
«Dovete smetterla di parlare di me.» Erika alzò il volume della sua voce, restando immobile nella strada, a fissarle. Le due sussurrarono qualcosa fra loro. Erika si innervosì ancora di più. «Smettetela ho detto.» Urlò.
Le due ragazze, col viso basso, si allontanarono, sempre parlando a bassa voce, tornando verso la città, andarono poco più in là, parlando di lei, parlandone male, si sedettero su una panchina, mentre Erika rimaneva immobile e le seguiva con lo sguardo. Tirarono fuori il telefono, scrissero a qualcuno di ciò che era successo, insultandola. Poi fecero una foto.
Alla Luna.
Erika bruciò d'ira. Lo stesso ardore di quel giorno. Andò verso di loro, camminando pesantemente. «Smettetela!» urlò, le due ragazze si sussultarono e furono in piedi accanto alla panchina. A quella mora cadde il telefono con cui avevano fatto la foto e mandato messaggi su Erika a qualche altra cretina come loro.
«Erika, che hai? Che abbiamo fatto?» la moretta, una ragazza bella e piuttosto alta, magra e con lineamenti troppo belli per avere solo tredici anni, aveva anche una voce molto dolce, ma questo non fece dimenticare ad Erika quanto fosse velenosa quella lingua.
«Dovete lasciarci in pace.» Erika urlava, «Dovete smetterla di parlare di me, dovete lasciare la Luna, lui me l'ha regalata. »
Le ragazze impallidirono, sembravano non capire, stronze. Fingevano di non sapere di che stesse parlando, mentre Erika vomitava parole. «Dovete lasciarci, noi ci amiamo, lui me l'ha regalata, e io gli ho dato il mio, il mio cuore, la mia luna, lasciateci..» continuava, parlando veloce, saltando parole e divenendo incomprensibile.
«Erika, calmati.» Disse la biondina, bassa e un po' chiatta, ma con gli occhi enormi e verdi.
«Smettetela, smettetela, smettetela, smettetela» continuava a gridare, la strada era desolata, solo un lampione, una panchina, un muretto e sotto il pendio della collina. Da lontano si udì il suono delle campane, erano appena le 20.00, ma le due ragazzine non avevano mai provato quella paura. Il telefono era ancora per terra quando vibrò. Qualcuno aveva finalmente risposto, aveva detto "Chi? Quella cessa di Erika la racchia? Sapete che è convinta di stare con Sebastiano, il bono di Terza C? Non capisce un cazzo, con tutti quei brufoli deve avere il pus anche nel cervello", quindi Erika fu costretta a calciarlo giù dalla collina. In un attimo saltò verso la bionda, le afferrò i capelli ed iniziò a tirare. La moretta corse via. La moretta non ragionò, le gambe lunghe l'aiutarono, ma corse a perdifiato a cercare qualcuno. Erika era forse impazzita? Corse.
Intanto Erika tirò i capelli della bionda, ma non così forte. Lei urlava, ma il suono era ovattato. Che strano. Erika sentiva placare il dolore che aveva in pancia, il fuoco lo sentì distante. Pensò a quella sera sotto la luna, con Sebastiano. Ai baci che si erano dati. A come lui l'aveva stretta, aveva sentito il peso di lui sulla pancia, e lo sentiva oggi. Sentiva il corpo di lui che, pesante, le schiacciava le costole, il petto. Alla lingua di lui che dall'orecchio scese sul collo, per un secondo sentì di nuovo mancare l'aria, come quel giorno, anche oggi, sotto la luna, sentiva Debussy suonare per lei, sentiva in gola il suo calore, la sua pelle profumata.  Sentiva lo sporco dell'azione, ma anche l'amore, sentiva il seme di lui nella bocca, che scendeva sulle guance, mescolandosi con le sue lacrime. Sentiva il bagnato e la voce che chiedeva pietà, soffocata, ma 'sta volta non era la sua voce, non era Erika a chiedere pietà; non era Erika a piangere con la bocca piena di quella cosa schifosa e un forte dolore fra le gambe. Era Meri, la biondina. Gridava forte, pure con la bocca tappata dalla mano di Erika, che sanguinava per quanto forte l'avesse morsa. Erika la stringeva forte, ma non abbastanza, le strinse il collo, come lui aveva fatto con lei, e guardava la sua Luna, mentre dalla sua bocca sgorgava il sangue di Meri, della guancia che aveva morso, ma fortunatamente smise di agitarsi, Meri. Stretta nell'abbraccio di Erika, che voleva solo ritrovare la sua innocenza, nel bianco di quella Luna, mentre le note del chiaro di luna uscivano stonate dall'auto della Polizia.

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