Linee Incidenti

Uscendo dall'ospedale, col passo incerto, sentii ancora il braccio pulsare, ma era normale, dopo aver fatto l'ennesimo prelievo di sangue. La mia macchina non era ancora pronta, ferma dal meccanico, e dovevo spostarmi coi mezzi quasi sempre, fortunatamente quel giorno c'eri tu. Entrai in macchina mentre tu, sorridendo, fumavi la tua sigaretta. Spiai dal finestrino la tua bocca elegante e gli occhi grigi persi nel cielo, fissavi l'autunno scendere sull'ospedale e sui tigli. Sei sempre stata così bella. I tuoi capelli così biondi, così lisci, ti incorniciavano il viso scarno. Eri dimagrita così tanto da due mesi a questa parte, mi sentivo così in colpa. Ti avvicinasti alla macchina buttando l'ultimo respiro di fumo, ti sedesti composta. Ti guardai ancora, prima di partire.
Come tutti i nostri viaggi dopo quello, guidammo piano, lentamente, con gli occhi attenti, senza distrarci se non per ricordare alcuni momenti assieme. Ridemmo, come ridevamo sempre quando eravamo insieme; continuai a pensare a quanto ti amassi, per tutto il viaggio, ogni giorno pensavo a quanto fossi innamorato di te, mentre ti guardavo e ti mi guardavi di conseguenza. Pensai alle parole che avrei dovuto dirti. Le dissi. Chissà se puoi sentirle.

Arrivati a casa tua lasciammo la macchina e le chiavi, ringraziammo tua madre che aveva ancora gli occhi lucidi poi, stringendo la tua mano, andammo verso casa mia. Anche il viaggio a piedi fu silenzioso: solo qualche sguardo e la tua sigaretta, così tossica ma così elegante su di te. E ormai non avevo più la forza di rimproverarti.
"Senti," iniziai non appena fummo in camera mia, chiudendo la porta. Tu eri già alla mia finestra, con la sigaretta accesa. Ti girarsi per darmi tutta la tua attenzione. "penso che dovremmo parlare."
Dal tuo sguardo fu facile capire che non ne avevi voglia, ti mettesti i capelli dietro l'orecchio, un'altra boccata di fumo, e di nuovo gli occhi su di me.
"Pensavo che dovrei chiederti scusa." Era un discorso che andava fatto. Era troppo che non parlavamo, troppo tempo che restavo in silenzio. Mi guardai nella specchiera sul mio armadio, volevo avere un aspetto serio mentre parlavo con lei di una cosa come questa. Avevo il labbro rotto, i cerotti sul mio petto, mentre levavo la maglietta, per far respirare le ferite. Mi girai verso lei, continuai a guardare il mio riflesso nella finestra, guardando lei. Lei era così perfetta in confronto a me, non riuscivo a credere che fosse mia.
Ritornai alla realtà, le guardai gli occhi ed ebbi di nuovo la forza di parlare, i suoi occhi erano, la mia forza.
"Non ti ho ancora chiesto scusa, davvero, non l'ho fatto. Non posso pretendere che tutto torni come era lei prima, non sarà mai così, però vorrei che tu potessi perdonarmi. Cioè, tu ora stai bene, si vede, ma alla fine hai sofferto tanto più di me, ma la colpa era mia." Ero io che guidavo, quella sera. "E non posso dare la colpa al nostro litigio, amore mio, non dovevo incazzarmi così con te.." Lei si alzò, venne verso di me, ci stendemmo sul letto. Mi strinse, sentii il suo calore, la sua paura. Stavo già piangendo, mentre la stringevo, guardavo le nostre foto alle sue spalle. Piangeva anche lei, sentivo il calore sulle mie spalle, le lacrime calde. E il silenzio. Chissà se lei può sentire come mi sento.

"Io non volevo ucciderci."

Aprii gli occhi, è non c'era più. Eravamo in due mondo diversi, che si sovrapponevano. In due universi paralleli, e non avremmo più potuto viverlo assieme, se non durante questi momenti, in cui il vento era caldo, e le strade bagnate. Il ricordo di quel tronco d'albero, a dividere le nostre vite, quel tronco che si era insidiato nella nostra macchina e ci aveva divisi per sempre. Lasciando unite le nostre radici.



Miriam si alzò dal mio letto, lasciò un bacio sul mio cuscino, accarezzò il muro contro il quale avevamo fatto l'amore più di una volta soprattutto la prima. Uscì e chiuse la porta.
Pianse le ultime lacrime, sempre in silenzio. Si teneva il fianco, che le faceva male, mentre scendeva le scale, l'operazione non era andata molto bene, il fegato non funzionava al meglio. Uscì dalla porta di casa mia bloccando i singhiozzi, per non far piangere mia madre.
Erano passati già tre mesi dall'incidente e due dal funerale. Ormai le loro vite scorrevano parallelamente, ma sapeva che si sarebbero incrociate all'infinito. Lo sognava ogni notte, anche con gli occhi aperti, e sognava anche l'incidente.

Andò al cimitero, come ogni giorno: casa, ospedale, casa di lui, cimitero.
Questa era diventata la sua vita. Si lasciò cadere sulla tomba e lesse il nome della metà di quella coppia, sapendo che, da qualche parte, al suo fianco, lui stava piangendo le stesse lacrime, chissà se lui poteva vederla.


Gli sorrise, ricordando quanto lui la fissasse, immaginando che lo stava facendo ancora, è fumò la sigaretta, pensando al discorso paranoico che avrebbe fatto ancora.

Un "ti amo" sussurrato da parte di tutti e due.
L'infinito, amore, non è distante.

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