Fumo

Il vecchio di cui nessuno sapeva nulla rise  come sempre per primo della propria battuta, e tutto il bar lo seguì, chi non lo conosceva più forte degli altri. 
Un tavolo di ventenni disse alla cameriera di offrirgli un’altra birra, che avrebbero pagato loro. Lei, sparecchiandogli il tavolo, sorrise loro e fece cenno di sì. Arrivata in cassa gli riempì un bicchiere di coca cola con un po’ di birra, essendo così affezionata a quell’uomo da star sempre male nel vederlo ubriaco; glie lo mise davanti, come al solito. Lui senza rendersene conto, del trucchetto, del piccolo tradimento, sollevò il calice verso gli ammiratori placidi e ne bevve un grosso sorso zuccheroso: tutti gli offrivano da bere. Sorridendo allegro e guardando nella direzione che aveva indicato lei, dove sedevano i ragazzi, si sistemò un po' il cappello dopo il cenno di ringraziamento.

La cameriera non gli dava mai tutte le birre o il vino che gli offrivano, nonostante questo beveva gratis tutti i giorni in quel bar, sempre nello stesso posto, accanto al bancone, dove poteva sorridere alle signorine fuori dalla vetrata, alla proprietaria; ma anche agli uomini, non era un pervertito, come in molti dicevano; non era un pazzo (o un po' sì); era uno di tanti, chiusi in un baretto scaldato troppo e colmo di gente alla sera, più spesso  però straripante di noia.
E lui si prendeva gioco della noia con battute scadenti, raccontando storie con una voce troppo bassa, troppo roca per essere piacevole, ma così intensamente da diventarlo. Rendeva piacevole l'aprire il locale alla ragazza della mattina, poiché arrivava alle sette e ordinava la colazione; poi leggeva loro il giornale, facendo trapelare una vena di intelligenza e tutti sorridevano. 
«Ci staresti meglio tu al governo!» commentava sempre qualcuno, offrendogli un caffè. Ed Enrico sorrideva, chiedeva, al posto del caffè, un biscotto di quelli di pasticceria che tenevano la mattina nel bar. Andava via a pranzo chissà dove, e tornava verso le cinque puzzando di incenso e terriccio. 
Attendeva i soliti lavoratori che finivano il turno e si prendevano un caffè, un tramezzino, la prima birra del venerdì. Guardava gli studenti coi rientri e gli sportivi; raccontava loro aneddoti, barzellette, storie: rideva sonoramente di ogni battuta, di ogni proprio commento, perdendosi nei fumi della cordialità da bar. Gli offrivano da bere senza che fosse mai lui a chiederlo, a volte qualcuno aveva anche tentato a chiedergli qualcosa di sé, ad Enrico, ma lui rispondeva con battute più forzate, non inerenti, o semplicemente si fingeva più ubriaco di quanto non fosse.
Enrico non beveva mai troppo oltre il limite, preferiva anzi le offerte dai cari amici o una bella ragazza, accettava tutto dalle biondine che gli sorridevano, e gli bastava una mano sulla spalla per essere brillo. Enrico le rubava il sorriso e se ne inebriava.

Nella vita nessuno ha ciò che merita, a malapena ciò che necessita. Qualcuno semplicemente impara ad accontentarsi. Come Enrico.

«È con quel velluto che ci ammazzerete tutti, lo so.» diceva sorridendo, con i denti che gli mancavano, ingialliti, come i baffi, dalle sigarette. Sigarette che nessuno gli aveva mai visto fumare, che nessuno gli aveva mai sentito addosso, qualcuno giurava avesse visto un pacchetto da qualche parte nel suo grosso cappotto verdone, che lo avvolgeva tutto.
Quando vedeva una bionda, Enrico si illuminava del sorriso per cui veniva additato come maniaco, le cercava gli occhi, ma nessuna regge lo guardo fisso di un uomo di quell’età col naso così rosso e gli occhi così persi.
La vedeva in ogni viso, in ogni sguardo, l’amava senza sosta. L’amore, malattia e medicina, lo ubriacava mai a sazietà, sempre alla ricerca di riempire quel cuore, pure quando traboccava di solitudine e inconsistenza. Male e cura, ma che cura da la potenza di una medicina pericolosa? Piena di effetti collaterali, di vomito, di strazianti dolori all’addome, di addii e pochi, pochissimi arrivederci. Non sazia mai, l’amore. Lascia effetti, non ferite visibili, laceranti.
«Quanto è bello ammalarsi d’amore, eh?» dice un giorno Enrico alla cameriera, guardandola. Quella sera c'era calma nel locale, era solo un martedì. Un gruppo di studenti che bevevano birra giocando a Risiko! ed una coppia che iniziava a conoscersi, sfiorandosi con i polpastrelli le mani, vicendevolmente, in un ballo intricato di mancanza di baci. Lui una birra grande, rossa, che potesse durare a lungo, e lei una birra piccola a sostituire la diet-cola che prenderà poi, per tutto il resto della relazione. Qualche coro li disturba dal tavolo dei ragazzi, ma poche figure. Se non Enrico, o Enricone, che guarda malinconico la catenina della cameriera.
«Non le stai guardando le tette, vero?» Matteo, il proprietario del locale, un uomo bassetto e pelato (di quelli che dice in giro che Enrico sia un maniaco, tra l'altro), sistema le fette di arancia per lo spritz in un frigorifero piccolo, sotto il bancone. La domanda risveglia dallo stato di trans Enrico, che subito cerca di ironizzare: «Non saprei manco più come guardarle» dice, ma non esce bene «c'ho le cataratte!» ritenta con la voce spezzata.
Marina, la cameriera, si agita, stizzita sistema la maglia nera che la copre quasi totalmente e manda un'occhiataccia a Matteo. Per lei Enrico è come il nonno che non ha più, con quei baffi e quel sorriso cordiale. Si gira e lo vede intimidito a giocare con la ciotola delle patatine. Glie la riempie. Gli dice: «Non ascoltare quel villano, Enrì - idiota, anzi - che parla solo perché c'ha la bocca..» ed inizia una serie di lamentele sul capo, che non paga mai in tempo, che non concede ferie e che ciuccia via soldi dalle mance. Ma Enrico è un po' perso quella sera. Quella sera è un po’ diversa dalle altre, per Enrico. I suoi occhi luccicano. Marina lo guarda, se ne accorge solo ora.
«Ammalarsi s’amore, dici..» riprende il discorso che avevano perduto poco prima. «Bello pensarlo una malattia: magari fosse contagioso..!» nasconde un cuore infranto, pensa Enrico, ma non risponde. L’amore è contagioso.
«Magari si passasse coi baci.» Al bancone è seduta una ragazza biondina, sono tre settimane che si siede in quel posto ed osserva chi la circonda. È nuova della città, qui per un lavoretto, non conosce nessuno, parla con la voce di chi è sola.
«Magari!» ridacchia Marina, a cui fa piacere avere una coetanea non ubriaca con cui chiacchierare.
«Al massimo malattie veneree, e te le passano quando meno te le aspetti.» Oggi le battute Enrico non vengono fuori bene, ma guarda la ragazza, ne cerca lo sguardo. Una punta marrone nei suoi occhi azzurri le ricorda di Rita.
Le due ragazze ridacchiano, arriva un’altra birra per Enrico e quella sera tocca il fondo.
All’una non riesce più a star bene, ha giochi colmi di lacrime, ma così secchi che è impossibile farle venir fuori. Son sassi quelle lacrime sedimentate nel suo sguardo che ora vede solo lei, ora, e sempre, nel viso di tutte, lui la cerca, la trova.
«Sarebbe bello se fosse contagioso» dice a voce alta mente Marina finisce di sistemare, i ragazzi al tavolo iniziano a salutarsi, è troppo tardi per chiunque, per un martedì. «Ma probabilmente lo è. Tu ami, con un bacio, col sesso, e lui è tuo. Poi lui sbaglia, con un bacio e col sesso l’amore che gli hai donato lo passa ad un’altra, che si innamora di uno nuovo. Si ammalano tutti di amore, ma non di chi è malato di loro. Tutti amano qualcuno, pochi amano chi li ama. Qualcuno semplicemente si accontenta.» Parla di sé, parla con sé, e con Lei, che non può sentirlo. Marina riflette, non sa che dire. I ragazzi sollevano le antenne per ascoltare il discorso del pazzo.
Torna in silenzio Enrico, neanche ascolta i commenti degli altri.


Quando sono solo lui e Marina, sulla strada di casa che Enrico soleva far con lei, per non lasciarla sola, continuò. Quella sera Enrico non sentiva gli altri parlare, meno del solito comunque.
«Sai, io ero un medico,» Le dice, Marina non gli crede, ma lo lascia parlare. «Il brutto delle malattie sono i tempi d’incubazione. Ogni corpo reagisce in maniera diversa, c’è chi ha qualche giorno, chi qualche anno. Io ad esempio ho tempi lunghissimi d’incubazione, mi serviva molto per capire l’amore che provavo. lei invece no, amava subito e forte.» È la prima volta che Marina lo sente parlare così seriamente di una donna, Enrico di solito si vantava solo di mille donne innamorate, di un passato da galante casanova.
«Di solito chi ama subito, si fa passare pure in fretta il mal d’amore. Chi invece ama lentamente, ama piano, come me, soffre tutta la vita per quell’unica fiamma. Non arde forte, è lenta e truce, illumina poco, ma non si spegne mai.»
Enrico rubava l’amore negli occhi delle donne, si ubriacava di loro, senza mai volere niente di più di quel sorriso, si tingeva di rosso il viso, col vino, con la birra, come il cuore che pulsa nel torace veloce al pensiero di Lei, rosso come il sangue. Sentimento e carne si riflettono nella mancanza, nell’assenza. Un verme nel cuore che gli mangia le viscere, lo alimenti di amore finto e di scherno, di sangue. Ma si muove veloce nel cuore. Nella pancia. Enrico lascia Marina sotto casa e piange. Il sentimento per Rita, ormai maturo, brucia nel petto e nello stomaco, nel fegato affaticato, nella malattia che lo logora forte.

Non c’è fine, quando è difficile ricordare qualsiasi cosa, tranne l’unica cosa che vorresti dimenticare. L’amore della tua vita, sull’altare. Vestita di bianco. Ma non per lui, per nessuno in realtà. Nella sua prigione infinita, fra morbidi cuscini rossi, mazzi di fiori, pelle candida e una bellezza che non finirà più. Va davanti ai cipressi a trovare Rita. Non tornerà più in quel bar. Mai più.

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